Dall’allegria all’empatia: il nuovo linguaggio dell’advertising

Come è cambiato il linguaggio della pubblicità negli ultimi dieci anni? Una delle tendenze più significative è quella di non edulcorare la realtà ma descrivere la vita per quello che è, disegnando un ritratto più vero della società in cui viviamo, che comprende anche la sofferenza.

Felicità di plastica: per molti anni l’affermazione di uno stereotipo comunicativo di una società allegra a tutti i costi ha impedito alla realtà di emergere nelle campagne pubblicitarie.

Per quasi mezzo secolo la pubblicità ha imposto l’immaginario di una società allegra a tutti i costi. Discorsi impeccabili, famiglie perfette e sorridenti, atmosfere rassicuranti: nell’ideare una campagna si partiva dal presupposto che un prodotto o servizio, per diventare oggetto del desiderio e quindi essere acquistato, dovesse essere percepito come una rapida scorciatoia verso la felicità. In un mondo in cui tutti sembravano perfetti la parte buia e precaria della realtà non poteva essere raccontata. Quel che ne rimaneva era una falsa rappresentazione delle persone e della loro vita. Ed è forse per questo che il pubblicitario è ancora visto come un astuto venditore di cui non fidarsi mai fino in fondo, che fa leva sulle nostre debolezze e frustrazioni più nascoste solo per raggiungere gli obiettivi economici del suo cliente.

Da un urlo a senso unico al dialogo: l’avvento di internet e dei social network ha rivoluzionato le strategie di comunicazione mettendo il brand sullo stesso piano del proprio target.

La strategia commerciale è insita nella natura stessa dell’advertising. Sarebbe ipocrita negarlo: il fine ultimo di ogni campagna di comunicazione è vendere qualcosa. Ma da un decennio a questa parte la qualità dei contenuti è nettamente migliorata. L’ascesa di internet e dei social network ha sicuramente favorito questa rivoluzione mettendo il brand sullo stesso piano del proprio target e permettendo a entrambi di avere uno scambio diretto. Ciò che prima era un urlo a senso unico è diventato un dialogo. La creatività pubblicitaria ha dovuto fare i conti con una diffidenza ormai radicata, di cui era in gran parte responsabile, e guardarsi allo specchio per capire dove stava sbagliando. Si è umilmente rimessa in discussione e ha cambiato i suoi linguaggi, i suoi punti di vista. Si è avvicinata alle persone, ai loro problemi, è scesa sulla terra smettendo di promettere, ma iniziando a raccontare la vita per quella che è. Niente di più, niente di meno.

“Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono”: un nuovo ritratto della società che va oltre le apparenze e che rende la comunicazione un ponte tra il brand e il suo target.

Proprio come nella composizione dei cibi è sempre più forte l’esigenza di tornare alla purezza degli ingredienti, così anche in pubblicità si è ormai innescato un processo di sottrazione del superfluo che mira a esaltare valori autentici e universali. Lo sforzo è quello di arrivare a insight sempre più calzanti e condivisibili dalla gente comune, abbandonando gli stereotipi che per anni hanno dominato spot e campagne. Da questa trasformazione lenta e allo stesso tempo profondissima emerge un ritratto nuovo e più vero della società in cui viviamo. Una società in cui donna e uomo hanno gli stessi ritmi di vita, un tessuto umano di cui è giusto mostrare il bello, ma anche quello che non si vorrebbe vedere.

Oggi, come mai era accaduto prima, in una campagna di comunicazione si riesce a parlare con disinvoltura e senza alcun filtro anche di un aspetto della vita che non metterebbe mai nessuno di buon umore: la sofferenza. E per sofferenza non si intende un vago sentimento di malessere, ma un dolore specifico e molto personale. Per fare un esempio, i brand cominciano a interrogarsi sulla crudeltà che si cela dietro al concetto di bellezza fino a ora imposto dai mass media. Cosa nascondono quei corpi eterei ed eccessivamente magri che per molto tempo il mondo della moda ha considerato gli unici canoni di bellezza accettabili? Forse dei disagi alimentari o innumerevoli ritocchi fotografici, non importa. L’aspetto rilevante è che finalmente si parli anche di quello che esiste dietro la luccicante apparenza: l’essere umano con i propri limiti e fragilità.

La sofferenza è qualcosa di vasto, imponente, sfaccettato. Chi ha scelto di essere innovatore nel settore della pubblicità e del marketing tende a non usare più le storie di dolore come esche per suscitare pietà, ma a trasformare queste storie in un ponte ideale che unisca il brand al suo target. Poter raccontare la sofferenza e, specularmente, poterla ascoltare senza timore o repulsione crea un fortissimo legame emotivo che va oltre l’acquisto di un prodotto e riguarda la reputazione a lungo termine dell’azienda stessa. Nel nuovo immaginario della pubblicità non esiste più qualcosa da mascherare perché brutto, sporco, triste o deprimente. Esistono le persone nella loro verità. Mostrarle senza eufemismi è, molto probabilmente, la più grande conquista dell’advertising e della comunicazione in genere.

 

Agnese Petturiti
Senior copywriter, autrice, consulente creativa, lavora da 11 anni nel settore pubblicitario. Insegna advertising e copywriting presso AANT – Accademia delle arti e delle nuove tecnologie di Roma. È specializzata in below the line, advertising crossmediale e corporate storytelling. Da due anni collabora con ProFormat Comunicazione come freelance, progettando campagne di medicina narrativa e divulgazione scientifica.